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N.B. c. Slovacchia, N. 29518/10, Corte EDU (Ex Quarta Sezione), 12 giugno 2012

Abstract

Sterilizzazione di una donna di etnia rom senza consenso libero e informato, trattamento inumano e degradante. La mancanza di garanzie per la salute riproduttiva di gruppi etnici vulnerabili viola il diritto al rispetto della vita privata e familiare. Assenza di prove di una discriminazione strutturale. Indagine penale come mera obbligazione di mezzi.

Riferimenti normativi

Art. 3 CEDU
Art. 8 CEDU
Art. 12 CEDU
Art. 14 CEDU

Massima

1. Rimuovere una delle capacità importanti di una paziente e farle accettare formalmente una procedura medica grave come la sterilizzazione, mentre è in travaglio e le sue abilità cognitive sono condizionate dai farmaci, e poi indicare indebitamente che la procedura era indispensabile per preservare la sua vita, viola l'integrità fisica della ricorrente ed è gravemente irrispettoso della sua dignità umana e della sua libertà, in violazione dell'articolo 3 della Convenzione.

2. Gli articoli 1 e 3 della Convenzione impongono alle parti contraenti obblighi procedurali di condurre un'indagine ufficiale efficace, che deve essere approfondita e rapida. Tuttavia, l'incapacità di una determinata indagine di produrre conclusioni non significa, di per sé, che sia stata inefficace: l'obbligo di indagare non è un obbligo di risultato, ma di mezzi. Inoltre, nello specifico ambito della negligenza medica, l'obbligo di effettuare un'indagine efficace può, ad esempio, essere soddisfatto anche se l'ordinamento giuridico offre alle vittime un rimedio nei tribunali civili, da solo o in combinazione con un rimedio nei tribunali penali, che consenta di riconoscere l'eventuale responsabilità dei medici coinvolti e di ottenere un adeguato risarcimento civile, come una condanna al risarcimento dei danni e alla pubblicazione della decisione. Se ciò avviene, non c'è violazione dell'obbligo di effettuare un'indagine efficace sui fatti che hanno violato l'articolo 3 e, quindi, nessuna violazione procedurale dell'articolo 3 stesso.
(Nella caso di specie, la ricorrente aveva presentato una denuncia e un procuratore della Procura generale che ha riesaminato il suo caso ha infine ammesso che l'operazione non era stata acconsentita dalla tutrice legale della ricorrente, in contrasto con la legge in materia, ma questo non significava che i medici avessero commesso un reato, poiché avevano agito in buona fede.)

3. L'assenza di garanzie che tengano in particolare considerazione la salute riproduttiva di una donna rom, in quanto individuo vulnerabile appartenente a un gruppo etnico particolarmente colpito dalla questione della sterilizzazione e del suo uso improprio - soprattutto in Slovacchia, secondo il Commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa -, ha comportato l'inadempimento da parte dello Stato convenuto dell'obbligo positivo di assicurarle una misura sufficiente di protezione che le consenta di godere effettivamente del suo diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, in violazione dell'articolo 8 della Convenzione. (Per questo rilievo peraltro la Corte ha ritenuto di non dover esaminare se i fatti avessero determinato anche una violazione del diritto della ricorrente a sposarsi e a fondare una famiglia, ai sensi dell'articolo 12 della Convenzione).

4. In assenza di informazioni disponibili e di prove oggettive solide abbastanza da dimostrare in modo convincente che i medici hanno agito in malafede, con l'intenzione di maltrattare la ricorrente, non è possibile concludere che la procedura di sterilizzazione faccia parte di una politica discriminatoria strutturale o che il comportamento del personale ospedaliero sia stato intenzionalmente motivato da pregiudizi razziali (cfr. n. 74832/01). Pertanto, le carenze della legislazione e della prassi in materia di sterilizzazioni, che colpiscono in particolare i membri della comunità rom, devono essere preferibilmente considerate solo alla luce dell'articolo 8 della Convenzione, senza che sia necessario determinare separatamente se i fatti del caso abbiano dato luogo anche a una violazione dell'articolo 14 della Convenzione.

(Una donna di etnia rom era stata sterilizzata in un ospedale pubblico, in occasione di un parto cesareo. Era minorenne all'epoca e sua madre e rappresentante non era presente al parto né è stata informata o le è stato chiesto il consenso per la sterilizzazione. La procedura non era una necessità imminente da un punto di vista medico. Alla ricorrente fu chiesto di dare il suo consenso per iscritto, dopo aver ricevuto una premedicazione in vista del parto cesareo previsto, che includeva un derivato della benzodiazepina usato per i suoi effetti sedativi, ansiolitici e miorilassanti. L'annotazione pertinente nella cartella clinica che le fu chiesto di firmare era dattiloscritta e indicava che aveva richiesto una procedura di sterilizzazione dei suoi organi riproduttivi durante il parto e che era stata informata del carattere irreversibile di tale operazione e della sua impossibilità di concepire un bambino in futuro. In un’altra pagina della cartella clinica era stato riportato che, durante il parto cesareo, erano emerse complicanze che avrebbero messo a repentaglio la vita della donna e del feto nell’ipotesi di una ulteriore gravidanza, e per questo si era deciso di procedere con la sterilizzazione.
La ricorrente dichiarò in seguito che, dopo la somministrazione della premedicazione, era stata avvicinata da un membro del personale medico, che aveva tre fogli A4 e che le aveva preso la mano per aiutarla a firmare i fogli. La donna era in travaglio, si sentiva come intossicata sotto l'influenza del farmaco e non aveva né la forza né la volontà di chiedere cosa contenessero i documenti. Ricordava che un medico presente le disse che sarebbe morta se non avesse firmato i documenti, ragion per cui non si oppose.)

Note

La pratica della sterilizzazione forzata è (e lo era già all'epoca dei fatti in questione) condannata, come forma di violenza contro le donne, da molti documenti internazionali e atti di soft law (cfr., per esempio: Comitato per l'eliminazione della discriminazione contro le donne, Raccomandazione n. 24, 20a sessione, 1999) e la Convenzione di Istanbul del 2011 (non firmata dalla Slovacchia) ne ha in seguito addirittura imposto l'incriminazione agli Stati firmatari. Inoltre, questa pratica è inclusa, nello Statuto di Roma del 1998 della Corte Penale Internazionale (di cui la Slovacchia è parte), tra gli atti che possono costituire genocidio o crimini contro l'umanità.

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