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Bundesrepublik Deutschland c. Y e Z, Cause Riunite C-71/11 e C-99/11, CGUE (Grande Camera), 5 settembre 2012

Abstract

Riconoscimento dello status di rifugiato in favore dei membri di una comunità religiosa di minoranza. Persecuzione per motivi religiosi nel proprio paese di origine. Divieto di manifestare la propria religione in pubblico.

Riferimenti normativi

Direttiva del Consiglio 2004/83/CE del 29 April 2004 recante norme minime sull'attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta

Art. 9 CEDU

Art. 15 CEDU

Art. 10 CDFUE

Massima

1. La libertà di religione rappresenta uno dei cardini di una società democratica e costituisce un diritto umano fondamentale. La violazione del diritto alla libertà di religione può presentare una gravità tale da essere assimilata ai casi contemplati all’articolo 15, paragrafo 2, della CEDU, a cui fa riferimento, a titolo indicativo, la direttiva 2004/83/CE per determinare quali atti devono essere considerati alla stregua di una persecuzione. Ciò non significa, tuttavia, che qualsiasi violazione del diritto alla libertà di religione garantito dall’articolo 10, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea costituisca un atto di persecuzione tale da obbligare le autorità competenti a concedere alla vittima di tale violazione lo status di rifugiato.

2. Per individuare in concreto quali siano gli atti che possono essere considerati persecutori non è pertinente distinguere tra gli atti che ledono un “nucleo essenziale” (“forum internum”) del diritto fondamentale alla libertà di religione, che non comprenderebbe le pratiche religiose in pubblico (“forum externum”), e quelli che non incidono su tale presunto “nucleo essenziale”. Gli atti che possono costituire una “violazione grave” ai sensi della direttiva comprendono atti gravi che colpiscono la libertà del richiedente non solo di praticare il proprio credo privatamente, ma anche di viverlo pubblicamente.

3. Le autorità competenti possono valutare qualsiasi tipo di atto lesivo del diritto fondamentale alla libertà di religione onde determinare se, alla luce della sua natura o reiterazione, esso risulti sufficientemente grave da essere considerato una persecuzione. Gli atti che, a causa della loro intrinseca gravità unitamente alla gravità della loro conseguenza per la persona interessata, possono essere considerati persecuzione devono essere individuati non in funzione dell’elemento della libertà di religione che viene leso, bensì della natura della repressione esercitata sull’interessato e delle conseguenze di quest’ultima.

4. Dato che la nozione di “religione” ai sensi della direttiva abbraccia anche la partecipazione a cerimonie pubbliche di culto, singolarmente o in comunità, il divieto di siffatta partecipazione può costituire un atto sufficientemente grave e, quindi, una persecuzione, qualora nel paese d’origine esso comporti un rischio effettivo, in capo al richiedente di essere perseguito penalmente o di essere sottoposto a trattamenti o a pene disumani o degradanti.

5. La circostanza soggettiva che l’osservanza in pubblico di una determinata pratica religiosa sia particolarmente importante per l’interessato al fine di conservare la sua identità religiosa costituisce un elemento rilevante nella valutazione del livello di rischio che il richiedente corre nel suo paese d’origine a causa della propria religione, quand’anche l’osservanza di tale pratica religiosa non costituisca un elemento centrale per la comunità religiosa in oggetto.

(Nel caso di specie, due cittadini pachistani appartenenti alla comunità musulmana Ahmadiyya avevano presentato domanda di asilo e di riconoscimento dello status di rifugiato, lamentando di non poter praticare la propria fede ed esercitarne il culto in pubblico senza correre il rischio di essere perseguitati nel proprio paese d’origine. Secondo la Corte, deve essere loro riconosciuto lo status di rifugiato laddove sia assodato che, una volta rientrati nel proprio paese d’origine, gli interessati si dedicheranno ad una pratica religiosa che li esponga ad un rischio effettivo di persecuzione. La circostanza che essi possano scongiurare detto rischio rinunciando a taluni atti religiosi risulta, in linea di principio, ininfluente).