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Z e T c. Regno Unito, dec., N. 27034/05, Corte EDU (Quarta Sezione), 28 febbraio 2006

Abstract

Riconoscimento dello status di rifugiato in favore di coloro che, al ritorno nel loro paese d’origine, verrebbero privati del diritto di vivere liberamente e apertamente la propria fede. Persecuzione per motivi religiosi nel paese di origine.
 

Riferimenti normativi

Art. 9 CEDU

Massima

1. È garantita tutela a coloro i quali rivendichino in modo comprovato che, una volta rientrati nel loro paese d’origine, subiranno persecuzioni per motivi religiosi ovvero si troveranno esposti al rischio effettivo di morte o gravi maltrattamenti, e all’eventuale diniego di un giusto processo ovvero a detenzione arbitraria, a causa della propria appartenenza religiosa.
   
2. Qualora tuttavia un individuo lamenti il fatto che, una volta rientrato nel paese d’origine, si vedrebbe preclusa la possibilità di esercitare il proprio culto religioso, dall’articolo 9 CEDU può essere ricavata, se del caso, una protezione assai limitata. Viceversa, gli Stati contraenti si vedrebbero imposto l’obbligo di agire efficacemente come garanti indiretti della libertà di culto per il resto del mondo.

3. Ipotizzando che l’articolo 9 CEDU sia idoneo, in linea di principio, ad essere invocato in caso di espulsione di un individuo da parte di uno Stato contraente, i ricorrenti devono dimostrare di essere esposti personalmente a tale rischio ovvero di appartenere ad un gruppo così vulnerabile o minacciato o di trovarsi in una posizione talmente precaria, in quanto cristiani, da poter indicare qualsiasi forma di violazione palese dell’articolo 9 della Convenzione.
(Nel caso di specie, due cittadine pakistane di fede cristiana sostenevano che, qualora fossero state rimpatriate nel loro paese d’origine, non avrebbero potuto vivere da cristiane senza correre il rischio di essere soggette ad un’attenzione ostile o senza dover adottare misure dirette a dissimulare la propria religione. Secondo le richiedenti, l’esigere di fatto un cambiamento dei loro comportamenti, dissimulando la propria adesione al cristianesimo e rinunciando alla possibilità di parlare della propria fede e testimoniarla ad altri, equivaleva a negare in sé il diritto alla libertà di religione. La Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, sulla base di una distinzione fra le garanzie fondamentali sancite dagli articoli 2-6 della CEDU e le altre disposizioni della Convenzione).