Conclusioni dell'Avvocato Generale Bot, Bundesrepublik Deutschland c. Y e Z, Cause Riunite C-71/11 e C-99/11, CGEU (Grande Camera), 19 aprile 2012
Aree tematiche
Avvocato generale
Presidente
Settori
Paese
Abstract
Riconoscimento dello status di rifugiato in favore dei membri di una comunità religiosa di minoranza. Persecuzione per motivi religiosi nel proprio paese di origine. Divieto di manifestare la propria religione in pubblico.
Riferimenti normativi
Direttiva del Consiglio 2004/83/CE, del 29 aprile 2004, recante norme minime sull'attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta
Art. 9 CEDU
Art. 15 CEDU
Art. 10 CDFUE
Massima
1. L’obiettivo perseguito dal legislatore dell’Unione nell’ambito del regime europeo comune in materia d’asilo non è concedere una protezione in tutti i casi in cui una persona non possa esercitare pienamente ed effettivamente, nel suo paese d’origine, le garanzie che le sono riconosciute dalla Carta o dalla CEDU, ma limitare il riconoscimento dello status di rifugiato alle persone che rischiano di essere esposte ad una negazione grave o ad una violazione sistematica dei loro diritti più essenziali e la cui vita nel loro paese d’origine è divenuta intollerabile.
2. Non esiste nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea né in quella della Corte europea dei diritti dell’uomo alcun elemento che consenta di sostenere che il “nucleo essenziale” della libertà di religione debba essere limitato al foro interno e alla libertà di manifestarla in privato o insieme ai fedeli della propria comunità religiosa, escludendo così la manifestazione pubblica della religione.
3. La libertà di praticare la propria religione non è un diritto inderogabile, ma costituisce nondimeno un diritto fondamentale e si potrebbe considerare che la limitazione di detto diritto o la sua violazione debbano essere sanzionate anche in caso di violazione lieve. Tale limitazione ha una natura necessaria all’equilibrio della vita sociale: la restrizione di una pratica religiosa attraverso una normativa tesa a garantire l’equilibrio fra le pratiche delle diverse religioni esistenti in uno Stato non può pertanto costituire un “atto di persecuzione” né una violazione della libertà di religione. Al contrario, una siffatta normativa viene incontro alla preoccupazione di mantenere un reale pluralismo religioso e assicurare, in seno ad uno Stato di diritto, la coesistenza pacifica delle diverse fedi, come si conviene ad una società democratica.
4. Sussiste il timore fondato di essere perseguitato laddove il richiedente asilo, una volta tornato nel suo paese d’origine, intenda proseguire le attività religiose che lo espongono a un rischio di persecuzione. L’autorità responsabile dell’esame della domanda d’asilo non può ragionevolmente esigere da tale richiedente che quest’ultimo rinunci alle suddette attività e, in particolare, alla manifestazione della propria fede.
(Nel caso di specie, due cittadini pachistani appartenenti alla comunità musulmana Ahmadiyya avevano presentato domanda di asilo e di riconoscimento dello status di rifugiato, lamentando di non poter praticare la propria fede ed esercitarne il culto in pubblico senza correre il rischio di essere perseguitati nel proprio paese d’origine. Secondo la Corte, deve essere loro riconosciuto lo status di rifugiato laddove sia assodato che, una volta rientrati nel proprio paese d’origine, gli interessati si dedicheranno ad una pratica religiosa che li esponga ad un rischio effettivo di persecuzione. La circostanza che essi possano scongiurare detto rischio rinunciando a taluni atti religiosi risulta, in linea di principio, ininfluente).