Uso illegittimo della forza in carcere. Qualche spunto a partire da un’indagine sul personale lombardo della Polizia Penitenziaria (PolPen XXI)
Il tema dell’uso illegittimo della forza da parte degli/delle agenti di polizia penitenziaria sta irrompendo nel dibattito pubblico del nostro Paese. È in corso il processo per le violenze perpetrate nel 2020 nel carcere ‘Francesco Uccella’ di Santa Maria Capua Vetere. Negli ultimi anni, fatti verificatisi in diverse carceri italiane – tra cui quelle di Genova, San Gimignano, Modena, Ferrara, Torino, Ivrea e Bari – hanno portato all’apertura di procedimenti per abuso di autorità, maltrattamenti, lesioni o tortura. A prescindere dalle specificità di ogni singolo caso, la magistratura e la società stanno prendendo consapevolezza di un fenomeno che fino ad ora faticava a valicare le mura del carcere: nell’espletamento del loro lavoro, gli/le agenti di polizia penitenziaria tengono talvolta comportamenti violenti, vessatori, umilianti e denigranti nei confronti delle persone private della libertà personale.
A ben vedere, non si tratta un problema che interessa solo l’Italia. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si è più volte pronunciata in tema, stimolata da ricorsi provenienti da tutta Europa. Nella sua giurisprudenza ha stabilito che, per quanto l’uso della forza possa essere necessario per assicurare la sicurezza e l’ordine nelle carceri, esso non si deve tradurre in una violazione dei diritti sanciti dall’art. 3 CEDU. Inoltre, gli Stati contraenti sono chiamati ad assicurare indagini effettive rispetto a eventuali denunce di maltrattamento presentate dai/dalle detenuti/e, al fine di garantire l’efficacia del divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti (ex multis, Artyomov c. Russia, n. 14146/02, 4 ottobre 2010; Bouyid c. Belgium [GC], n. 23380/09, 28 settembre 2015; Ostroveņecs c. Latvia, n. 36043/13, 5 gennaio 2018; Ochigava c. Georgia, n. 14142/15, 16 febbraio 2023).
La vastità del fenomeno spinge a interrogarsi sulle ragioni sottostanti l’uso illegittimo della forza da parte degli/delle agenti di polizia penitenziaria e, ancor prima, sulle dinamiche della vita in carcere. Per quanto importante, limitarsi a sanzionare i/le responsabili di condotte violente non esclude la possibilità che eventi simili possano ripetersi per mano di altri/e: i/le colpevoli in divisa non sono delle “mele marce” ma rappresentano la spia di problematiche che coinvolgono l’intera istituzione penitenziaria. Alla luce di ciò, sembra cruciale approfondire l’operato della polizia penitenziaria, considerando tanto le modalità organizzative della prigione quanto le sensibilità dei/delle agenti e le difficoltà che quotidianamente incontrano nell’espletamento del proprio lavoro. In altre parole, solo attraverso la comprensione del vissuto professionale degli/delle agenti e del contesto in cui operano è possibile elaborare delle strategie di prevenzione dell’uso illegittimo della forza.
Da queste considerazioni prende le mosse la recente ricerca “PolPen-XXI” intrapresa dal Prof. Roberto Cornelli in collaborazione con il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Lombardia. L’obiettivo è stato proprio quello di analizzare il punto di vista degli/delle agenti di polizia penitenziaria circa il loro lavoro, al fine di riflettere sulle criticità del carcere e di fondare proposte formative e gestionali. La ricerca ha coinvolto 845 agenti che hanno espresso la loro opinione su questioni relative alla loro esperienza lavorativa, all’orientamento professionale, alla qualità delle loro relazioni nel contesto lavorativo, alla legittimazione da parte dell’istituzione, al loro vissuto emotivo, alla gestione degli eventi critici, alla propensione all’uso della forza e all’emergenza Covid-19.
Riassumendone i risultati più significativi, la ricerca ha rilevato innanzitutto la scarsa qualità delle relazioni degli/delle agenti con le persone ristrette. A proposito, vale la pena ricordare che il lavoro dell’agente di polizia penitenziaria è fortemente relazionale: gli/le agenti si relazionano quotidianamente con i/le colleghi/e, con i/le superiori, con l’amministrazione penitenziaria e, soprattutto, con i/le detenuti/e. In riferimento a quest’ultimo profilo, la letteratura evidenzia che il lavoro dell’agente consta essenzialmente nella costruzione di “relazioni corrette” con i/le detenuti/e, fondamentali per garantire l’ordine e la sicurezza nelle carceri e favorire la rieducazione.
Gli/le agenti che hanno partecipato alla ricerca sembrano consapevoli della rilevanza dell’aspetto relazionale nel loro lavoro: il 70,5% riconosce l’importanza di avere un buon rapporto con la popolazione detenuta e la quasi totalità del campione ritiene che sia giusto trattare i/le detenuti/e con rispetto per la loro dignità e spiegare loro le motivazioni delle regole e delle decisioni che li/le riguardano. Tuttavia, alcuni/e agenti hanno dichiarato di aver subito nell’ultimo anno aggressioni verbali da parte delle persone detenute (63,3% del campione) e, talvolta, anche aggressioni fisiche (15,5% del campione). Inoltre, al 30,8% del campione capita spesso di non essere rispettato dalle persone detenute.
Anche la relazione con i/le superiori e l’amministrazione penitenziaria generalmente considerata risultano per certi aspetti critiche: l’89,1% del campione ritiene che l’Amministrazione non comprenda le difficoltà degli/delle agenti e il 50,3% riferisce di non essere ascoltato dai/dalle superiori quando si presenta un problema sul lavoro. Inoltre, il 69,1% dichiara che se dovesse fare un buon lavoro nessuno lo noterebbe e il 70,9% percepisce di essere sempre giudicato male, a prescindere da cosa faccia. Gli/le agenti sembrano quindi sentirsi isolati/e, abbandonati/e e delegittimati/e, essendo lasciati/e soli/e ad affrontare le difficoltà che emergono nell’espletamento dei loro compiti e non vedendo riconosciuto l’impegno profuso. Ciò sarebbe accompagnato e rafforzato dalle difficoltà interpretative delle regole penitenziarie: il 61% del campione riferisce che spesso non sa quale regola o procedura seguire per non sbagliare e il 41,6% che quando si verifica un problema non si sa chi debba occuparsene o a chi rivolgersi.
Dalla ricerca è emerso poi che gli/le agenti in media si sentono abbastanza pronti/e ad affrontare eventi critici di varia natura. Tuttavia, la maggioranza degli/delle agenti ha espresso preoccupazione rispetto all’eventualità di confrontarsi con aggressioni ai danni dei/delle colleghi/e, con risse tra persone detenute o con una rivolta. In breve, gli/le agenti sembrano non sentirsi preparati/e a fronteggiare comportamenti aggressivi da parte della popolazione detenuta. Tale circostanza è coerente con la diffusa paura di vittimizzazione nutrita dagli/dalle agenti: il 65,5% del campione ritiene che il rischio di aggressione sia l’aspetto peggiore del lavoro in polizia penitenziaria e il 25% dichiara che quando ha personalmente a che fare con una persona detenuta teme che possa accadere qualcosa di spiacevole. In linea con questi risultati, la maggioranza del campione ritiene che occorrerebbe più formazione alla gestione di eventi critici e di persone problematiche per rendere più sicuro il proprio lavoro.
La ricerca ha infine indagato la propensione all’uso della forza degli/delle agenti di polizia penitenziaria, vale a dire la disponibilità degli/delle agenti a usare la forza in situazioni che segnalano qualche tipo di criticità. Come accennato, gli/le agenti possono legittimamente usare la forza nell’esercizio delle loro funzioni (art. 41 o.p.); tuttavia, devono farlo entro certi limiti, superati i quali la forza legittima diventa violenza illegittima. Tali limiti si definiscono nella contingenza e dipendono dal modo in cui l’agente interpreta una situazione critica in considerazione del suo vissuto personale e professionale, e quindi anche delle aspettative sociali e istituzionali circa l’appropriatezza del proprio agire. Su questa base, la ricerca “PolPen-XXI” si è chiesta dove gli/le agenti pongano i limiti dell’uso legittimo della forza e se esistano problemi di percezione di questi limiti. A riguardo è stato rilevato che il 24% del campione crede che occorra usare la forza per non apparire deboli; l’16,6% ritiene opportuno ricorrere all’uso la forza con chi non obbedisce; il 20,8% dichiara che è necessario reagire con la forza per rimettere al proprio posto chi insulta un/a agente; e l’12,2% pensa che qualche volta si debba usare più forza di quanto sarebbe strettamente indispensabile per farsi rispettare. Non si tratta di percentuali elevate; tuttavia, l’indice sintetico di propensione all’uso della forza mostra che il 36,7% del campione sarebbe disposto a usare la forza in almeno una delle quattro situazioni prospettate. Emerge dunque un problema di percezione dei limiti di legittimità dell’uso della forza che coinvolge una parte non trascurabile degli/delle agenti che hanno partecipato alla ricerca. Come detto, l’uso (illegittimo) della forza dipende da una scelta individuale in cui le percezioni, i sentimenti e le aspettative plasmate nei contesti organizzativi, sociali e culturali giocano un ruolo cruciale. In questo senso, la propensione all’uso della forza risente inevitabilmente anche della qualità della relazione tra agenti e detenuti/e, del senso di delegittimazione istituzionale oltre che dell’orientamento culturale e professionale degli/delle agenti. Ulteriori approfondimenti per una migliore comprensione del fenomeno dovranno indagare proprio questi aspetti.
(Focus a cura di Chiara Chisari)
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