Uno sguardo d’insieme sulla giurisprudenza delle corti sovranazionali in materia di simboli religiosi sul luogo di lavoro
L’utilizzo dei simboli religiosi da parte di un fedele sui luoghi di lavoro è stato oggetto di attenzione sia della Corte di Giustizia dell’Unione europea che della Corte europea dei diritti dell’uomo, le quali hanno cercato di operare un bilanciamento tra due opposte esigenze: da un lato, la necessità di salvaguardare la libertà religiosa; dall’altro, l’esigenza di rispettare la libertà di impresa nell’organizzazione delle politiche aziendali.
La Corte Europea dei diritti dell’Uomo si è pronunciata numerose volte in materia di simboli religiosi e tra le pronunce di maggior spicco è possibile richiamare i casi Eweida c. Regno Unito e Chaplin c. Regno Unito del 2013. In entrambe le fattispecie, la Corte ha stabilito che l’utilizzo di indumenti religiosamente connotati e di simboli religiosi rientra tra le manifestazioni del credo religioso tutelate dall’art. 9 CEDU. Pertanto, restrizioni al loro uso possono derivare unicamente dalla legge che sia “proporzionata e necessaria” alle finalità perseguite oppure che abbia come scopo la salvaguardia dell’ordine pubblico. Nel caso Eweida c. Regno Unito, una hostess di terra della British Airways era esonerata dal lavoro con sospensione dello stipendio perché indossava, insieme alla divisa ufficiale, una collana con un crocifisso, violando la politica di neutralità dell’azienda. I giudici di Strasburgo affermano che l’esposizione della croce rientra nella manifestazione della libertà religiosa e costituisce un diritto fondamentale del singolo sia poiché una società democratica è fondata sulla tolleranza e sul sostegno del pluralismo e delle diversità, sia in ragione dell’interesse – da parte di chi abbia elevato la religione a principio essenziale della propria vita - di comunicare le proprie convinzioni agli altri. Nel secondo caso, invece, alla signora Chaplin, infermiera di un ospedale inglese, in conseguenza di un cambiamento della divisa fu vietato di indossare la collana con la croce che portava da anni. Il divieto dell’ospedale era stato giustificato, dai giudici di Strasburgo, da esigenze di salute, considerato che qualsiasi tipo di gioiello avrebbe potuto causare lesioni ai pazienti, o infettarli qualora fosse venuto a contatto con tessuti danneggiati.
Sul tema è possibile richiamare anche la sentenza S.A.S. c. Francia del 2014. In quell’occasione, la Corte EDU ha ritenuto invece compatibile con l’art. 9 CEDU il divieto stabilito dalla legge francese di indossare qualunque capo di abbigliamento che copra completamente il volto. Il giudice europeo ha dichiarato che la legge francese non viola la Convenzione, affermando un uso proporzionato del margine di apprezzamento di cui gode nel disciplinare materie sensibili, e sostenendo che l’intervento legislativo trova la sua ragione giustificatrice nella garanzia del rispetto dei valori democratici, tra cui la Corte EDU annovera le esigenze del vivre ensemble di cui ai parr. 2 degli artt. 8 ss. della Convenzione. La Corte ha infine ribadito questa posizione anche nella sentenza Belcacemi e Oussar c. Belgio del 2017, affermando la conformità del già menzionato divieto alle norme CEDU.
Dopo anni di silenzio, anche la Corte di Giustizia dell’Unione europea si è pronunciata sul tema. I casi posti alla cognizione dei giudici si sono concentrati sulla liceità del divieto imposto dal datore di lavoro di indossare indumenti o accessori che manifestino una data appartenenza religiosa sui luoghi di lavoro.
Nei primi casi intervenuti in ordine di tempo – che vanno individuati nei due casi “gemelli” Achbita e Bougnaoui c. Micropole SA - la questione pregiudiziale era incentrata sulla compatibilità della misura presa dal datore di lavoro con il divieto di discriminazione in base alla religione o alle convinzioni personali posto dalla direttiva 2000/78/CE. Il caso Achbita riguardava il licenziamento, da parte dell’azienda belga G4S Secure Solution NV operante nel settore della sicurezza, di Samira Achbita, una lavoratrice di fede musulmana che svolgeva la funzione di receptionist. In particolare, la donna si era rifiutata di obbedire alla prescrizione datoriale di non indossare il velo durante lo svolgimento della prestazione lavorativa. La società aveva sostenuto l’inadempimento contrattuale per violazione di una regola aziendale che, al momento dei fatti, era non scritta, e che poi era stata inserita nel regolamento aziendale. La Corte di Giustizia, nel caso di specie, stabilisce che «il divieto di indossare un velo islamico, derivante da una norma interna di un’impresa privata che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro, non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali ai sensi della direttiva 2000/78/CE».
Nel caso gemello Bougnaoui c. Micropole SA, una società operante in Francia - la Micropole Univers SA che erogava servizi nel campo dell’ingegneria gestionale - aveva licenziato la sig.ra Bougnaoui a causa del suo rifiuto di togliersi il velo islamico sul luogo di lavoro. La società aveva infatti stabilito un divieto generalizzato all’uso dei simboli religiosi sul luogo di lavoro, anche se il licenziamento trovava specifica motivazione nelle rimostranze di un cliente sull’uso del velo da parte della dipendente. In specie, il percorso argomentativo che compie la Corte parte dalla valutazione della disparità di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali del lavoratore dipendente ex articolo 2, par. 2 lett. b) della Direttiva 78/2000. Dunque, la differenza di trattamento non integra discriminazione indiretta se oggettivamente giustificata da un obiettivo legittimo perseguito dall’impresa che adotti una politica di neutralità nei confronti della sua clientela. Sulla base di tali valutazioni, la Corte, ha escluso che possa essere rilevante il mero desiderio dei clienti di non essere serviti da una lavoratrice col velo islamico, perché in base all’articolo 4, par.1, della Direttiva 78/2000, e in base alla giurisprudenza costante della stessa Corte, è la nozione di requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa che giustificherebbe la disparità di trattamento. I Giudici dell’Unione, quindi, giungono alla conclusione per cui il desiderio dei clienti di un’azienda che non ha una norma interna che imponga il divieto di indossare il velo islamico, non è rilevante, e non assurge a requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa. Occorre però che sia il giudice nazionale a verificare in concreto che l’appartenenza a una cultura religiosa incida sulle prestazioni professionali esigibili dal lavoratore.
La Corte di Giustizia dell’Unione europea ritorna sul tema dei simboli religiosi anche nel 2021 grazie a due differenti rinvii pregiudiziali da parte di due giudici tedeschi: sentenza della Corte (Grande Sezione) del 15 luglio 2021 (domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dall’Arbeitsgericht Hamburg, Bundesarbeitsgericht - Germania) - IX / WABE eV (C-804/18), e MH Müller Handels GmbH / MJ (C-341/19) (Cause riunite C-804/18 e C-341/19). I casi di specie riguardavano due donne di religione musulmana, un’educatrice e una addetta alle vendite, a cui il datore aveva vietato loro di indossare il velo in servizio e per questo erano state sospese dalla loro mansione. Richiesto in via pregiudiziale se ciò costituisse una discriminazione diretta ai sensi del diritto europeo, la Corte di Giustizia chiarisce che quando il divieto riguarda indifferentemente tutti i lavoratori non si può parlare di discriminazione, specie qualora la stessa prescrizione sia collegata all’esigenze del datore di lavoro di mantenere, anche in considerazione dell’attività svolta, una neutralità politica e religiosa. Tuttavia, tale divieto deve limitarsi allo stretto necessario tenuto conto della portata e della gravità effettive delle conseguenze sfavorevoli che il datore di lavoro intende evitare mediante un divieto siffatto.
La Corte di Giustizia si pone su un piano di continuità con la giurisprudenza precedente con la sentenza 13 ottobre 2022, C-344/20 in cui ribadisce che l’impresa, che vieti di indossare qualsiasi tipologia visibile di simbolo religioso, filosofico o spirituale all’interno dei suoi locali, non commette discriminazione, purché la regola valga per ogni confessione; al contrario, si configurerebbe una disparità di trattamento in conflitto con le disposizioni della direttiva 2000/78. Nel caso di specie, una lavoratrice di fede musulmana aveva presentato ricorso contro un’azienda che aveva scartato la sua candidatura per un tirocinio perché, nel corso del colloquio, aveva affermato che si sarebbe rifiutata di togliere il velo. La regola interna della società era tuttavia chiara nell’affermare il divieto di indossare qualsiasi tipo di indumento o segno visibile della propria fede religiosa all’interno dei locali. La Corte, sul punto, afferma che tale divieto non costituisce nei confronti dei dipendenti una discriminazione diretta basata sull’appartenenza religiosa purché tale divieto venga applicato in maniera generalizzata.
In conclusione, il divieto di mostrare simboli religiosi come manifestazione della propria appartenenza religiosa sul luogo di lavoro non integra automaticamente discriminazione per la giurisprudenza sovranazionale, dovendo tenere in considerazione i diversi valori in gioco. Sembra essere di primaria rilevanza il fatto che il divieto riguardi tutte le religioni e tutti i soggetti indiscriminatamente. I giudici europei specificano inoltre che la politica di neutralità deve essere perseguita in maniera coerente e sistematica, e deve riguardare qualsiasi forma visibile di espressione delle convinzioni politiche, filosofiche e religiose.
(Focus a cura di Alessandro Cupri)
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