La kafala e la sua compatibilità con il diritto di famiglia delle contemporanee società occidentali
L’etimo della parola kafala è riconducibile al verbo ka-fala, il quale significa, in arabo classico, “prendersi cura di”, “nutrire”. Kafala, dunque, indica l’attività di crescere e nutrire un fanciullo e trova la piena legittimità nel principio coranico in base al quale ogni buon musulmano è tenuto ad aiutare i più bisognosi, in particolare i fanciulli in stato di abbandono. Il Corano, infatti, vietando espressamente l’adozione (XXXIII: 4-5) perché rescinde i legami tra il minore abbandonato e la famiglia di origine, prevede, però, il contratto fra i genitori e una terza famiglia, che si impegna a mantenere ed educare il bambino, senza che i genitori debbano farsi carico di alcuna spesa. Partendo, infatti, da un sura del Corano avente ad oggetto la gestione del patrimonio di un minore orfano, attraverso un meccanismo interpretativo indiretto, si ricava la ratio stessa dell’istituto, quale cura affettiva e guida al crescere di un adulto nei confronti di un minore in stato di abbandono.
L’affidato non entra a far parte, giuridicamente, della famiglia che lo accoglie e all’affidatario non sono riconosciuti poteri di rappresentanza o di tutela che rimangono invece attribuiti alle pubbliche autorità competenti. Tuttavia, l’istituto prescinde dal mero sostentamento economico di un fanciullo e si ritiene che sia più propriamente uno strumento posto a tutela di un minore in stato di bisogno piuttosto che uno strumento di garanzia in uso nel settore contrattuale ed economico.
Nel diritto islamico, la kafala è, dunque, un istituto attraverso il quale un minore (makfoul) viene affidato alla cura di un adulto musulmano (kafil) che si impegna non solo al suo sostentamento economico ma anche alla sua educazione e istruzione. La kafala, che si estende tanto ai minori che hanno un legame di filiazione legalmente riconosciuto, quanto ai minori di filiazione sconosciuta, si costituisce mediante un accordo, solitamente attraverso uno scambio di consensi tra il kafil e la famiglia d’origine del makfoul (c.d. kafala consensuale) ovvero attraverso sentenza, ossia attraverso una dichiarazione resa innanzi a un giudice (c.d. kafala negoziale). Il kafil, nella prassi è un parente, deve essere maggiorenne, musulmano e avere la capacità di far fronte agli obblighi derivanti dal compito assunto.
La Kafala è, dunque, inidonea a far sorgere un rapporto di filiazione, cessa con il raggiungimento della maggiore età del fanciullo e non determina il sorgere di diritti ereditari né alcuna aspettativa successoria in capo al makfoul.
Nei Paesi islamici vi è una (quasi) uniformità delle disposizioni che disciplinano la kafala; infatti, non si profilano profonde differenze, dato che l’istituto è ancorato ai modelli giuridici di queste nazioni che, come noto, sono considerate a tradizione islamica.
Inquadrare, invece, la kafala negli ordinamenti giuridici occidentali appare più complesso, sebbene esso veda un pieno riconoscimento nella Convenzione sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, nella Convenzione dell’Aja sulla protezione dei minori del 1996 e dalle Linee guida delle Nazioni Unite sulla cura alternativa dei bambini e dalla relativa risoluzione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 2009.
Il problema del valore giuridico da attribuire all’istituto della kafala si è posto, soprattutto, in relazione all’adottabilità di minori già sottoposti a kafala nel Paese di origine ed è stato affrontato in modo diverso nei vari ordinamenti europei.
Tra essi, la Spagna si è dotata di norme di riconoscimento dell’istituto della kafala nell’ordinamento interno, prevedendo l’adottabilità da parte di una coppia di cittadinanza spagnola, del minore sottoposto a kafala. Anche la Germania ha previsto che un minore abbandonato sottoposto a kafala possa essere adottato, se la coppia richiedente abbia la cittadinanza tedesca o perlomeno abbia contratto matrimonio secondo la legge nazionale.
In Francia, è esclusa l’adozione internazionale se la legge nazionale dell’adottante o dei coniugi ovvero del luogo di provenienza del minore la proibisca, e, dunque, di fatto, la kafala non consente l’adottabilità del minore mussulmano. Tuttavia, se il minore sia nato e risieda abitualmente in Francia o, da almeno cinque anni, sia stato accolto in Francia e ivi cresciuto da una persona di nazionalità francese, può richiedere la nazionalità francese e, dunque, acquisire la condizione di adottabilità, fermo restando l’accertamento dei presupposti per procedere all’adozione.
In Italia, sebbene la kafala presenti numerose affinità con l’istituto dell’affidamento temporaneo, essa ha sollevato una serie di criticità in relazione all’ammissibilità dell’ingresso del minore sul territorio dello Stato sulla base del ricongiungimento familiare o alla possibilità di trovare soluzioni alternative per rendere possibile il riconoscimento della kafala nell’ordinamento italiano utilizzando l’adozione in casi particolari. In generale si è posto in termini problematici il bilanciamento tra l’impegno da parte dello Stato italiano di evitare un aggiramento delle norme relative all’immigrazione in tema di sicurezza pubblica e la primaria esigenza di di tutela dell’interesse del minore.
In particolare, si è posto il problema della possibile strumentalizzazione della kafala, che può ragionevolmente profilarsi nel caso in cui tale istituto sia disposto al di fuori delle procedure istituzionalizzate con un accordo di natura meramente negoziale. In assenza di qualsiasi intervento giurisdizionale volto alla verifica dei presupposti della situazione di abbandono del minore e dell’idoneità del kafil, si potrebbe utilizzare la kafala al fine di eludere il ricongiungimento famigliare.
La giurisprudenza italiana, sul punto, ha offerto un importante chiarimento, mettendo in luce che, laddove i valori costituzionali di riferimento siano plurimi (come nel caso del ricongiungimento familiare in cui da una parte vi è l’esigenza di protezione dei minori e dall’altra la tutela dei confini di Stato) potrà considerarsi adeguata solo quell’interpretazione della norma che abbia alla base un equo bilanciamento degli interessi in gioco.
Dunque, al di là della forma con cui la kafala viene disposta, sarà compito dell’amministrazione e della giurisdizione italiana verificare se in concreto vi siano i presupposti necessari per il suo riconoscimento.
Nell’ipotesi in cui siano rilevate delle effettive prove dell’intento elusivo da parte dei soggetti affidatari, il giudice dovrà rifiutare l’autorizzazione all’ingresso del minore sulla base della contrarietà al principio dell’ordine pubblico secondo il quale nessuno può ricorrere a procedure “fai da te” nell’individuare minori stranieri in stato di abbandono all’estero da accogliere in Italia.
La giurisprudenza sovranazionale, prendendo atto della diversa impostazione seguita e della mancanza di consensus tra i vari ordinamenti nazionali sulla questione dell’adottabilità dei bambini stranieri affidati in kafala e la cui legge nazionale vieti l’adozione legittimante esclude di poter ritenere configurabile un’obbligazione positiva degli Stati di assimilare kafala e adozione (Harroudj c. Francia, N. 43631/09, Corte EDU, Sezione Quinta, 4 gennaio 2013).
D’altra parte, poiché la kafala non può essere equiparata all’adozione, il minore sottoposto a tutela non viene incluso tra i discendenti diretti che, in base alla direttiva 2004/38 sul diritto dei cittadini dell’Unione europea e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente all’interno del territorio degli Stati membri, rientrano nella nozione di “famigliare”. Tuttavia, il Giudice europeo chiarisce che il minore può essere compreso nella nozione di “altro familiare” e, di conseguenza, gli Stati membri, tenuti a preservare l’unità della famiglia in senso ampio, devono agevolare l’ingresso e il soggiorno del minore (sul punto la Grande Camera della CGUE, SM c. Entry Clearence Officer, UK Visa Section, C-129/18, 26 marzo 2021).
(Focus a cura di Nadia Spadaro e Alessandro Cupri)
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