Il diritto alla verità nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo
Il diritto alla verità a fronte di gravi violazioni dei diritti umani è tradizionalmente associato ai contesti interessati da processi di giustizia di transizione e ha conosciuto i suoi primi sviluppi nel Sistema interamericano di tutela dei diritti dell’uomo. Ciononostante, domande di verità sono recentemente state poste anche nelle aule dei tribunali europei e, in particolare, di fronte alla Corte europea dei Diritti dell’Uomo.
Il “diritto alla verità” non trova esplicita menzione nella Convezione Europea dei Diritti dell’Uomo, circostanza che, per inciso, risulta coerente con la pressocché totale assenza di codificazione del diritto in esame in testi normativamente vincolanti, a livello sia regionale, sia nazionale e internazionale. Di conseguenza, l’operazione ermeneutica della Corte EDU assume, nel contesto europeo, notevole importanza.
A questo riguardo, deve però essere notato che i giudici di Strasburgo sono giunti a riconosce il diritto alla verità solo gradualmente. Nelle prime pronunce sul tema, la mancanza di indagini statali volte a portare alla luce la verità in relazione a circostanze implicanti gravi violazioni dei diritti umani non è stata ricondotta, infatti, a una lesione di un vero e proprio “diritto alla verità”; piuttosto, è stata interpretata come una violazione dell’art. 3 CEDU, nella misura in cui la norma proibisce, tra le altre cose, trattamenti inumani o degradanti. Si consideri, a proposito, il caso Kurt c. Turchia: nell’opinione della Corte, l’assenza di informazioni sulla scomparsa del figlio della ricorrente, preso in custodia dalle autorità turche, corrispondeva alla responsabilità dello Stato convenuto in ragione della sofferenza arrecata alla madre della vittima.
Con il passare del tempo, ulteriori profili del diritto alla verità sono stati definiti più compiutamente. Nei casi Cipro c. Turchia e Varnava e altri c. Turchia, i giudici hanno ribadito che sulle autorità statali grava un obbligo di indagine utile a chiarire la verità, in quanto, altrimenti, i parenti delle vittime di gravi violazioni dei diritti umani sarebbero condannati a una perpetua agonia, corrispondente a una lesione dell’art. 3 CEDU. A fondamento di tale obbligo, la Corte ha richiamato, però, anche gli artt. 2 e 5 CEDU, considerati nella loro dimensione procedurale: l’effettiva tutela dei diritti alla vita (art. 2 CEDU) e alla libertà e alla sicurezza (art. 5 CEDU) richiede, infatti, l’espletamento di indagini volte a chiarire le circostanze di una loro presunta violazione. Successivamente, nel decidere il caso Associazione “21 Dicembre 1989” e altri c. Romania, la Corte si è riferita per la prima volta esplicitamente al “diritto a conoscere la verità”, che si configura in capo non solo alle vittime di gravi violazioni dei diritti umani, ma anche alle loro famiglie ed eredi. Anche in questa circostanza, il diritto in questione viene ricondotto alla dimensione procedurale dell’art. 2 CEDU.
Il caso El-Masri c. Macedonia rappresenta, però, il vero punto di svolta nell’elaborazione giurisprudenziale della Corte di Strasburgo: la Grande Camera ha statuito infatti che indagini inadeguate pregiudicano il “diritto alla verità” e contribuiscono a garantire una sostanziale impunità. Più nel dettaglio, la Corte ha innanzitutto riscontrato una violazione degli artt. 3 e 5 CEDU nella loro dimensione procedurale, in considerazione del mancato espletamento di indagini effettive e ufficiali capaci di condurre all’accertamento della verità circa i maltrattamenti e la detenzione arbitraria lamentati dal ricorrente. In secondo luogo, lo Stato macedone è stato ritenuto responsabile anche della violazione dell’art. 13 CEDU (diritto a un ricorso effettivo), per non aver garantito al ricorrente alcuna via di ricorso interno che potesse considerarsi effettiva.
Tale ricostruzione normativa è stata criticata dall’opinione concorrente dei giudici Casadevall e Lopèz, che hanno messo in luce alcune fragilità delle posizioni assunte dalla Grande Camera: nella loro prospettiva, il diritto alla verità non si configurerebbe, nel sistema della Convenzione, come un diritto autonomo, bensì ancillare agli art. 2 e 3 CEDU, sovrapponendosi, nei termini di una perfetta equivalenza, al diritto a un’indagine seria ed effettiva.
Un ulteriore aspetto meritevole di attenzione nel caso El-Masri consiste nell’ampliamento del novero dei soggetti titolari del diritto alla verità: dato l’impatto globale del fenomeno delle extraordinary renditions cui era stato sottoposto il ricorrente, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto che anche le vittime di crimini simili e il pubblico generale avessero interesse a conoscere i fatti oggetto di accertamento giudiziario. In particolare, nella categoria del pubblico generale la Corte ha annoverato le organizzazioni internazionali e intergovernative, gli organismi delle Nazioni Unite per i diritti umani, il Consiglio d’Europa e il Parlamento europeo, nonché la società civile mondiale.
Nelle pronunce successive al caso El-Masri, la menzione esplicita del “diritto alla verità” figura solo occasionalmente, con la conseguenza che, per il momento, la Corte EDU non sembra propendere per il riconoscimento di un diritto giuridicamente autonomo alla verità. Ciononostante, è possibile generalmente affermare che esso gode di una tutela indiretta nel contesto regionale europeo, in quanto, come visto, sussunto nell’obbligo procedurale di indagine da rinvenire negli artt. 2, 3 e 5 CEDU e, in senso lato, nell’art. 13 CEDU.
(Focus a cura di Tania Pagotto e Chiara Chisari)
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